Keynes contro il capitalismo

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Keynes contro il capitalismo

 
[Appunti da un nuovo libro a cui sto lavorando su Draghi, Caffè e Keynes, stay tuned]
 
Per Keynes, «l’ozio forzato» – la disoccupazione – era il male sociale per eccellenza: «uno spreco di risorse materiali e di vite umane che non potrà mai essere rimediato e che non può difendersi con ragioni di ordine finanziario». Da cui la sua famosa massima per cui «[è] meglio occupare gente a scavare buche e a ricolmarle che non occuparla affatto».
 
In verità, l’obiettivo di Keynes era molto più ambizioso del semplice mantenimento di un livello ottimale di produzione o dell’abolizione della disoccupazione (come disse la nota economica keynesiana Joan Robinson, Keynes non auspicava di certo un mondo in cui la gente sarebbe stata costretta a scavare buche); il suo auspicio era che le sue teorie contribuissero a inaugurare una nuova era (postcapitalistica?) per l’umanità, in cui i bisogni economici fondamentali dell’uomo sarebbero stati soddisfatti e dunque per la prima volta egli si sarebbe trovato «di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza».
 
Nel pensiero keynesiano, insomma, non ritroviamo solo suggerimenti per la politica economica, ma «una visione del mondo che affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del miglioramento sociale», come scrisse Federico Caffè.
 
Il conseguimento di questo obiettivo, però, presupponeva una forma di intervento pubblico che andasse ben al di là del semplice uso della politica di bilancio in chiave anticiclica a cui viene solitamente associato l’economista britannico. Ciò che Keynes aveva in mente era un sistema “misto”, una via di mezzo tra i due estremi del collettivismo sovietico da un lato e del libero mercato dall’altro, in cui lo Stato avrebbe tenuto «saldamente in mano i controlli centrali» dell’economia al fine di programmarne e pianificarne – è la parola utilizzata dallo stesso Keynes – l’attività generale, senza escludere la libera iniziativa privata ma coordinandola, disciplinandola e orientandola nell’interesse della collettività.
 
Questa pianificazione statale democratica, secondo Keynes, si sarebbe dovuta basare su alcuni pilastri fondamentali: la “socializzazione”, per mezzo di imprese pubbliche e semipubbliche, del grosso dello stock di capitale di un paese e dunque delle principali decisioni di investimento nell’economia, che si sarebbero dovute ispirare non (solo) a criteri di efficienza economica ma al miglioramento della qualità della vita (tramite il sostegno alla cultura, alle arti, all’istruzione, agli alloggi per le classi popolari, alla protezione dell’ambiente ecc.); una banca centrale «sotto controllo pubblico», al fine di sottrarla all’influenza degli interessi economici privati; la stretta regolazione politica dei rapporti economici e commerciali con l’estero, al fine di ottenere il maggior grado di «autosufficienza nazionale» possibile; l’abolizione della libera circolazione dei capitali; «l’eutanasia del rentier e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare [una situazione di scarsità artificiale del capitale]»; e un incremento del potere economico e politico del lavoro rispetto al capitale.
 
Alla luce di questa breve disamina del pensiero keynesiano, è lecito chiedersi se l’intento di Keynes fosse veramente “solo” quello di “salvare il capitalismo da se stesso” e dalle alternative rivoluzionarie che nei primi decenni del secolo scorso ne minacciavano la sopravvivenza – come recita la vulgata alimentata da un secolo a questa parte tanto dagli ambienti (neo)liberali che da quelli della sinistra marxista, entrambi interessati, per ragioni diverse, a sminuire la radicalità delle idee di Keynes – o se il fine ultimo dell’economista non fosse piuttosto quello di sostituire il capitalismo con un sistema radicalmente, tanto nei mezzi quanto nei fini.
 
Per certi versi è lo stesso Keynes a sciogliere l’arcano. In più occasioni, infatti, fu lui stesso a chiarire il suo obiettivo non era tanto quello di “riformare” il sistema capitalistico esistente quanto di promuovere la transizione a un modello alternativo che egli definiva «socialismo liberale»: un socialismo, cioè, che preservasse la natura democratica e le libertà individuali (e in parte anche economiche) dei sistemi politici occidentali, e che oggi chiameremmo, più semplicemente, socialismo democratico.
 
Come dichiarò in un’intervista del 1939: «La questione è se siamo pronti a uscire dallo stato di laissez-faire del XIX secolo per entrare nell’era del socialismo liberale, con il quale intendo un sistema in cui possiamo agire come una comunità organizzata per scopi comuni e per promuovere la giustizia sociale, al contempo rispettando e proteggendo l’individuo: la sua libertà di scelta, la sua fede, la sua mente e la sua espressione, la sua impresa e la sua proprietà».
 
In effetti, ci vuole un bel coraggio, per non dire malafede, per derubricare il modello politico-economico immaginato da Keynes – in cui le decisioni economiche più importanti sono determinate collettivamente tramite i processi politici democratici prima ancora che nell’arena del mercato e ispirati a criteri di progresso sociale prima ancora che di profittabilità – a mera riforma del sistema.
 
Come scrive l’economista James Crotty, autore di un bel volume intitolato "Keynes Against Capitalism" ("Keynes contro il capitalismo"): «Se usiamo la definizione tradizionale di capitalismo, l’obiettivo di Keynes era chiaramente quello di sostituire il capitalismo con una forma di socialismo democratico».

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