Quando il "democratico" chiama alle armi.... Repubblica risponde sempre presente!

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Nel giorno del 150° anniversario della Comune di Parigi, del primo esempio, secondo Karl Marx, di «governo della classe operaia», qualcuno - Michele Serra oggi sulle pagine di Repubblica - memore dei propri trascorsi nel PCI e nel Partito Radicale, si sbraccia a osannare «la democrazia». La “democrazia” assoluta, pura; la “democrazia” senza distinzioni di classe, senza riferimenti storici; la democrazia del capitale. E lo fa, qual qualcuno, tirando in ballo l'attuale Russia el'tsiniano-putiniana. Ovviamente, il pretesto è la provocazione avventurista di Burisma-Biden, che gli stessi media di un alleato degli USA non più più così sicuro, come il Giappone, definiscono «fuori di testa». Ma, appunto, quello è solo un pretesto; e in ogni caso, su quella provocazione, su quella “chiamata alle armi” contro Russia e Cina, che difficilmente tutti gli alleati di Washington accetteranno in silenzio, oggi si scriveranno giustamente migliaia di righe. Qui parliamo di un'altra cosa.

Si diceva: nel 150° anniversario del primo Stato di dittatura del proletariato che però, come disse poi Friedrich Engels, «non era più uno Stato nel senso proprio della parola», ma che, in quanto dittatura di una classe, escludeva per ciò la democrazia per un'altra classe, almeno fin quando quest'ultima non avesse cessato i tentativi di restaurazione, quel qualcuno blatera di “democrazia”: democrazia senza attributi. E lo fa alla maniera che lo stesso PCI (pur già incamminato sulla strada revisionista) di quei «nati nei ruggenti Cinquanta, nel pieno della Guerra Fredda, quando il braccio di ferro tra America e Russia incarnava lo scontro titanico tra capitalismo e socialismo» avrebbe bollato di liberalismo interclassista anti-operaio e di anti-comunismo.

Ora, quel qualcuno sostiene che «la carica virale antidemocratica del comunismo sovietico fosse così alta da sopravvivere facilmente alla morte del comunismo stesso, lasciando profonde tracce nelle società dell'Est». Di conseguenza, dice, oggi che al Cremlino siede «Vladimir Putin, ex iscritto al Pcus, ex dirigente dei servizi segreti sovietici», uno dei «leader più acclamati della destra mondiale, fautore attivo dell'ascesa di Trump, idolo dei sovranisti d'Europa», compare «del Berlusca, ora del Salvini», ecco che viene alla luce l'essenza diabolica del comunismo sovietico, capace nientepopodimeno che di lasciare in eredità la propria “carica virale (in tempi di Covid, questo attributo non può che incutere terrore) antidemocratica” e in grado addirittura di traghettare quel “virus” dal “regno dei morti” (perché, secondo l'ex PCI-PR, il comunismo è morto) a quello della «destra mondiale riorganizzata su basi autocratiche, antieuropee, tradizionaliste». E come è possibile un simile “miracolo”? Semplice: perché la Russia di oggi non è che la versione moderna dell'Unione Sovietica, dato - e non concesso - che in tale “equazione” «il ribaltamento ideologico sia, tutto sommato, abbastanza relativo». Infatti, dice ancora il “nato ruggente” convertito, «Radicalmente mutato l'assetto di potere, dall'oligarchia del partito unico alle oligarchie economiche, che si sono messe intasca in un baleno l'immenso patrimonio dell'ex Unione Sovietica, affamando gli espropriati come e peggio che nell'epoca zarista, quello che non è cambiato è il nemico: che è la democrazia. Questo, ovviamente, ce la rende ancora più preziosa». Tanto più che ora c'è «un democratico alla Casa Bianca», la qual cosa non può che  «dispiacere a Mosca».

Di grazia: di quale democrazia si parla? Di quale “democratico” si parla?

«Anche la democrazia è una forma di Stato, che dovrà scomparire quando scomparirà lo Stato, ma questo avverrà soltanto nel passaggio dal socialismo definitivamente vittorioso e consolidato, al pieno comunismo» affermava Lenin. Ancora Lenin: «La vecchia, o borghese, democrazia proclama la libertà e l'uguaglianza, uguaglianza indipendentemente dal fatto che l'individuo abbia la proprietà oppure no, indipendentemente dal fatto che egli possieda un capitale oppure no, proclama la libertà di disporre della terra da parte di proprietari privati e per chi non ha nulla di tutto questo, la libertà di vendere le braccia operaie al capitalista … abbiamo sempre smascherato, noi e i socialisti che ancora non hanno tradito il socialismo, la falsità, l'inganno e l'ipocrisia della società borghese, che parla di libertà e di uguaglianza, foss'anche di libertà e uguaglianza nelle elezioni, quando di fatto il potere dei capitalisti, la proprietà privata della terra, delle officine, delle fabbriche, determina di per sé non la libertà, ma l'oppressione e l'inganno dei lavoratori in tutti e ogni ordinamento “democratico e repubblicano”».

Il 18 marzo, che “alla Casa Bianca” ci sia un democratico o un repubblicano, i comunisti celebrano la proclamazione della Comune di Parigi. Scriveva Lenin: «Dopo la rivoluzione del 18 marzo, dopo la fuga da Parigi del governo del signor Thiers, delle sue truppe, della sua polizia e dei suoi funzionari, il popolo rimase padrone della situazione e il potere passò al proletariato. Ma, nella società attuale, il proletariato è economicamente asservito al capitale, non può dominare politicamente senza spezzare le catene che lo avvincono al capitale. Ecco perché il movimento della Comune doveva inevitabilmente assumere un colore socialista, tendere cioè all'abbattimento del dominio della borghesia, del dominio del capitale, e alla demolizione delle basi stesse del regime sociale dell'epoca. Tutte queste misure dimostrano abbastanza chiaramente che la Comune costituiva un pericolo mortale per il vecchio mondo fondato sull'asservimento e sullo sfruttamento. Perciò, finché la bandiera rossa del proletariato sventolava sul Palazzo comunale di Parigi, la borghesia non poteva dormire sonni tranquilli. E quando, infine, le forze governative organizzate riuscirono ad avere il sopravvento sulle forze male organizzate della rivoluzione, i generali bonapartisti, sconfitti dai tedeschi, ma valorosi contro i compatrioti vinti, questi Rennenkampf e Möller-Zakomelski francesi compirono una carneficina quale Parigi non aveva mai visto. Circa 30.000 parigini furono massacrati dalla soldataglia scatenata, circa 45.000 furono arrestati; di questi ultimi molti furono uccisi in seguito; a migliaia furono gettati in carcere e deportati. In complesso, Parigi perde circa 100.000 dei suoi figli, e fra essi i migliori operai di tutti i mestieri. La borghesia era soddisfatta. “Ora il socialismo è finito per molto tempo”, diceva il suo capo, il mostriciattolo sanguinario Thiers, dopo il bagno di sangue che egli e i suoi generali avevano fatto subire al proletariato parigino. Ma i corvi borghesi gracchiavano a torto. Sei anni circa dopo lo schiacciamento della Comune, quando molti dei suoi combattenti gemevano ancora nella galera e nell'esilio, il movimento operaio rinasceva in Francia».

Il “comunismo è morto”, dice oggi il convertito sulla via di Repubblica, dopo che i “democratici alla Casa Bianca” hanno massacrato e bombardato e continuano a massacrare e bombardare: in prima o per interposta persona.

Si potrebbe continuare per decine e decine di pagine. Ma se c'è «un democratico alla Casa Bianca», di quelli che a majdan Nezaležnosti ordinano democraticamente chi abbia diritto di parola e chi no, di quelli che ordinano a majdan Nezaležnosti quali magistrati abbiano diritto di indagare sugli affari di famiglia e quali no; se c'è «un democratico alla Casa Bianca» che la democrazia borghese, la democrazia di opprimere i lavoratori in casa propria e massacrarli democraticamente fuori di casa, «ovviamente, ce la rende ancora più preziosa», allora conviene tacere: i discorsi tra noi e quei “democratici” abbisognano di ben altre e più complessive critiche.

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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