Il commissariamento degli stati e la lotta di classe capitale internazionale/lavoro nazionale. L'intervista dell'AD a Lidia Undiemi

Il commissariamento degli stati e la lotta di classe capitale internazionale/lavoro nazionale. L'intervista dell'AD a Lidia Undiemi

"Tanto più i mercati risultano essere globalizzati, tanto meno è possibile ottenere una crescita democraticamente sostenibile"

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di Alessandro Bianchi

Lidia Undiemi. Studiosa di diritto ed economia. La prima in Italia a denunciare nel 2011 il colpo di mano che sarebbe avvenuto con la ratifica da parte del Parlamento italiano del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e del Fiscal Compact. Ha da allora continuato ad approfondire l’evoluzione della crisi economica europea con particolare riferimento alle trasformazioni del rapporto fra Stato, Democrazia e Organizzazioni internazionali. Autrice de il "Ricatto dei Mercati" (Ponte delle Grazie) e di un blog per il Fatto Quotidiano.


- Nel Suo libro “Il ricatto dei mercati” Lei ha descritto le strategie politiche e le tecniche giuridiche utilizzate dalla TROIKA e dai mercati per potere commissariariare i paesi in difficoltà, riducendo le istituzioni interne ad organi di mera ratifica. Può riportarci qualche esempio, anche per comprendere in che termini si sta riproponendo lo scontro in Grecia e cosa rischia l'Italia?
 
Il primo esperimento della Troika è stato realizzato in Grecia nel 2010. La prima richiesta di prestiti, per un importo di 110 miliardi di euro, fu inoltrata mediante accordi bilaterali con altri paesi membri, con la diretta partecipazione del FMI e la Banca della Ricostruzione tedesca (KfW) per conto della Germania. I creditori delegarono poi alla Commissione il compito di gestire e coordinare gli aiuti. Il 21 febbraio 2012 l'Eurogruppo decise di concedere una nuova forma di assistenza per 130 miliardi di euro, e il nuovo patto, attenzione, era stato vincolato alla partecipazione diretta del settore privato.
Gli “aiuti” finanziari erano vincolati all'accettazione delle condizioni rigorose, ossia le famose “riforme”, e le conseguenze di un eventuale rifiuto consisterebbero in una sospensione del supporto da parte della TROIKA, lasciando così il paese sotto “ricatto” dei mercati. I prestiti concessi vengono infatti erogati sotto forma di tranche periodiche, man mano che il paese concretizza l'agenda politica decisa dal creditore, il quale verifica in loco il rispetto di quanto pattuito. 
Visto il successo ottenuto in Grecia, la TROIKA ha deciso di imporre i commissariamenti anche in altri paesi, fra cui Cipro e Portogallo, il primo reso famoso dal prelievo forzoso imposto ai cittadini; con il secondo invece, nonostante sia meno noto, è avvenuto probabilmente il gioco di forza più pesante fra stati e mercati poiché nonostante la Corte Costituzionale portoghese abbia bocciato alcune delle misure di austerità relative ai dipendenti pubblici richieste dalla TROIKA, questa è riuscita ad imporre la propria linea. A Cipro, poi, il meccanismo del “ricatto dei mercati” è stato abbastanza vistoso: il 25 giugno 2012 il governo cirpiota inoltra una richiesta di “aiuto” alla TROIKA (già strutturatasi come MES), che l'approva a distanza di tempo perchè si aspettava il responso del Parlamento cipriota che avrebbe dovuto autorizza la richiesta di prelievo forzoso inserità fra le condizioni rigorose richieste dall'organizzazione. Inizialmente il Parlamento lo respinse (gli Stati restano comunque formalmente sovrani), e subito dopo la TROIKA rinnovò l'offerta ma non la deliberò ammettendo implicitamente che se non fosse stata accordata la richiesta non avrebbe sostenuto il paese. I mercati iniziano così ad esercitare pesanti pressioni, si paventa la fuga di capitali, la BCE lancia l'ultimatum al governo e poco tempo dopo Cipro è costretta a cedere.
Rischia anche l'Italia? E perchè no, visto che abbiamo assecondato e promosso questa nuova governance europea senza batter ciglio. Si inizia già a parlare di possibile commissariamento del nostro paese – l'attuale premier Matteo Renzi dice “se falliamo noi arriva la TROIKA” –, ed un tale risvolto politico espone chiaramente i cittadini a pagare un prezzo altissimo, cosa che in realtà stiamo già in parte facendo con le politiche di austerità. E' bene chiarire, infatti, che il non avere ancora siglato con la TROIKA/MES un protocollo di intesa non significa escludere che di fatto non siamo commissariati, specie se si considera che il governo tentando di portare avanti le “riforme” richieste dall'organizzazione e dai mercati, in primis quella sul lavoro.
La dimensione storico-politico della deriva dell'Eurozona poteva, anzi doveva, essere compresa per tempo dalla classe dirigente. La TROIKA si è sviluppata sul modello del FMI. Le prime forme di commissariamento in questo circolo vizioso dell'economia internazionale del debito sono state già sperimentare dal Fondo con grande successo (per i mercati, si intende) soprattutto negli anni '80. 


- Quale logica seguono le “riforme” volute della TROIKA? Perchè colpire così pesantemente i diritti dei lavoratori?
 
Andando alla radice della questione, siamo nel pieno di una lotta di classe a livello internazionale che mette a nudo la convivenza impossibile fra globalizzazione economica e democrazia. Se è vero, come è vero, che oggi il capitale internazionale riesce ad esercitare un potere politico tale da imporre le “riforme” agli stati in difficoltà, è chiaro che questo si adoperi affinchè il livello di tutele dei lavoratori sia il più possibile ridimensionato. Questo è pienamente coerente con il modello di sviluppo delle multinazionali, cioè di imprese che operano in una dimensione sovranazionale, in più paesi.
In Europa, stiamo non a caso assistendo ad un livellamento verso il basso di quei diritti, in special modo di natura retributiva, attraverso cui il capitale riesce ad appropriarsi del maggior reddito nazionale possibile, quello fortemente rappresentativo. Per determinati centri di potere le crisi rappresentano una grande opportunità. Tanto maggiore è il livello di dipendenza dell'economia di uno Stato al capitale internazionale – cioè tanto più si alimenta l'economica mondiale del debito – tanto minore è la possibilità che la democrazia possa effettivamente concretizzarsi. E tanto più i mercati risultano essere globalizzati e incentrati sul ruolo predominante delle imprese transazionali, tanto meno è possibile ottenere una crescita democraticamente sostenibile. Qui però la logica economica deve necessariamente cedere il passo a quella politica, perchè è proprio su quest'ultimo piano che si sta consumando una lotta di classe fortemente sbilanciata a favore del capitale, il quale ben consapevole di ciò, non invoca di certo il libero mercato bensì trattati e “riforme”, i primi volti ad indebolire il ruolo dello Stato e dunque delle costituzioni vigenti, le seconde per colpire direttamente la propria controparte, ossia i lavoratori.
La riforma italiana contro la stabilità del posto di lavoro sintetizza perfettamente i termini del conflitto. Il restringimento dell'ambito di applicabilità dell'articolo 18 – cioè della possibilità per il lavoratore di potere essere renitegrato nel caso in cui il giudice accerti l'illegittimità del licenziamento, per esempio per insussistenza delle motivazioni economiche –  di per sé non produce alcun effetto sull'economia, se non quello di consentire al datore di lavoro di potere attuare licenziamenti arbitrari, ossia di potere tenere sotto scacco i dipendenti. Si è visto in effetti quanta crescita abbiamo avuto dalla riforma “Monti-Fornero” del 2012 , intervenuta in maniera mirata ad indebolire l'articolo 18. Lo stesso presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, dichiarò che la licenziabilità dei  dipendenti era forse l'ultimo dei loro problemi. Eppure, per il FMI e per i “mercati” la riforma del lavoro in senso peggiorativo per i lavoratori era e resta una priorità. La classe media italiana rischia di fare la fine di quella americana, disintegrata proprio a causa della perdita dei diritti e del potere di contrattazione collettiva.

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