Appunti di viaggio in Corea del Nord

Appunti di viaggio in Corea del Nord

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di Giacomo Marchetti - Contropiano
 

Il treno da Pyongyang a Pechino ci regala un ultimo scorcio della Corea del Nord che sembra – vista la sua velocità e la luce del giorno – un lunghissimo piano sequenza cinematografico che ci gustiamo attraverso il finestrino.


Abbiamo tutti probabilmente un groppo in gola che attraversato il confine diventerà un senso di straniamento oltre quel fiume che a nord della penisola coreana, separa due mondi più che due Paesi, una sensazione che come una specie di medicina a lento rilascio, tornati “nel migliore dei mondi possibili”, difficilmente ci abbandonerà.


Alterno lo sguardo al finestrino, allo scambio di impressioni con i miei compagni e compagne di viaggio come abbiamo fatto durante in tutti questi giorni, alle ultime pagine del libro che mi ha accompagnato per queste vacanze: “La Lunga Marcia” di Agnes Smedley, una corposa e avvincente biografia del comandante dell’Armata Rossa cinese Chu Teh (oggi Zhe De seguendo l’attuale translitterazione) prima della rivoluzione del 1949, libro che ho letto avidamente durante i nostri continui spostamenti in bus e che concluderò il giorno successivo, ormai in Cina prossima al 70° anniversario della Repubblica Popolare, nella nostra comoda cuccetta a quattro.




Attraverso i vetri dei finestrini i campi prevalenti si alternano ai centri abitati, in ideale continuità con l’osservazione fatta in questi densissimi giorni lungo i costanti tragitti in bus dalla capitale alle altre città e luoghi che abbiamo visitato, da Kaesong a sud – posta sotto il 38° parallelo – a Myohyang incastonata su splendide montagne patrimonio UNESCO; da Wonsang sita sul mare, dove abbiamo degustato un ottimo pranzo di pesce e passeggiato sul lungomare, alla località montana del Masyk Ryong a poca distanza; dalla città costiera e portuale di Nampho a poca distanza dall’imponente costruzione ingegneristica del West Sea Barriage – probabilmente uno dei prodotti più encomiabili della sforzo collettivo coreano – ai dintorni della capitale dove sorge l’aereoporto.


Nei campi: soia, riso e frumento la fanno da padrone, ma anche gli alberi da frutto – meli in particolare – non mancano, potati esattamente come li taglia mio padre nel suo orto.




Anche i canali di irrigazione che dividono i campi in rettangoli, talvolta affiancati da fiumi e attraversati da strade in terra,  le persone si muovono a piedi ed in bicicletta, sono messi a coltivo, mentre lungo le strade aiuole fiorite conferiscono un gradevole senso di cura e bellezza alle lingue d’asfalto che attraversano il Paese.


La terra è bassa”, dicono i contadini dalla regione da cui provengo, e guardando il lavoro nei campi ricordo l’amore di mio nonno materno, Armando, quando si curava del piccolo pezzo di terreno nell’entroterra romagnolo, posto sotto la casa che si è costruito – ex muratore immigrato in Lussemburgo – con i sassi del fiume portati su insieme a mia nonna con la carriola.


E come se lo vedessi là in mezzo a quei contadini, lui che non sapeva né leggere né scrivere, ma che avrebbe trovato senz’altro il modo per comunicare perché anche lui “figlio della terra”; lo vedo li in mezzo con la sua figura imponente dare il “verde rame” tramite quella pompa manuale che qui ho rivisto, in un salto indietro nel tempo che è in realtà una proiezione verso il futuro.


Qui è visibile la stratificazione della fatica umana sulla terra, nel tentativo di trovare un rapporto armonioso con la natura, utilizzando in maniera fruttuosa lavoro e genio umano per “dominare l’acqua” e rendere sicuri e salubri i luoghi di vita e di lavoro.


Un esperimento che tenta di lasciarsi alle spalle gli effetti negativi di una concezione agronomica che in molte parti del mondo, con il suo mix di fertilizzanti e pesticidi, ha sterilizzato ed avvelenato la terra oltre l’uomo, e che tuttora da noi si perpetua introducendo tra l’altro gli OGM per legare chi vive dei prodotti della terra ai magnati dell’agro-business.


Vogliamo parlare dei braccianti ridotti a schiavi nelle nostre campagne, per fornire un paragone tangibile che permetta di comparare le diverse condizioni di una attività umana, da una parte il lavoro cooperativo e dall’altro il servaggio?


Quella “transizione ecologica” paventata in Occidente, qui sembra pratica quotidiana. Certo, si tratta anche di fare necessità virtù per carenza di mezzi, a giudicare dalla scarsa meccanizzazione e dall’età dei trattori visti, ma lo juche coreano ha sviluppato una risposta originale che coniuga la piena occupazione con il controllo della terra e la produzione agricola, per soddisfare innanzitutto i bisogni della propria popolazione ed in second’ordine per l’esportazione, secondo la strategia di una autosufficienza alimentare che costituisce la base per ogni modello di recupero della propria sovranità, dovrebbe essere oggetto di studio e non di denigrazione.


Ci colpisce il fatto che il fusto della pianta del granturco non venga sradicato, ma tagliata la pannocchia a mano, i legumi piantati ai piedi di questo salgano cingendolo servendosi di questo tutore naturale, simile all’ascesi al cielo delle piante di zucca che ornano i tetti delle case basse, dove seccano i chicchi mais, in un continuum che rende i piccoli villaggi specie di città giardino, prolungamento di una civiltà millenaria di contadini che già nel periodo Korio tenevano testa ai signori.


Abbiamo visto i pescherecci e l’attività di pesca lungo quella barriera tra mare e fiume che è la West Sea Barriage, e la meraviglia di un bozzetto con una scena di pesca mentre prende la forma di un dipinto all’interno del Mansudae Art Studio, una struttura laboratoriale imponente della capitale, che funge da laboratorio artistico statale.


Alla domanda che ho posto al pittore, se avesse assistito direttamente alla scena su cui stava lavorando, la risposta è stata che aveva passato una settimana sul peschereccio ed in effetti la forza espressiva del pesce sul ponte dell’imbarcazione, nel mentre venivano tirate su le reti, era lì a dimostrarlo ed è stata una piccola lezione di metodo d’osservazione della realtà, che la visita ad un altro studio di un pittore che lavorava su una tigre asiatica completerà, confermando ciò che avevamo potuto ammirare già nei prodotti delle arte figurative in vendita in cui avevo acquistato un dipinto raffigurante una statua di Chollima, mitica figura equestre della cultura coreana.


L’assenza di “rendita” e la pianificazione trasformano il paesaggio in un tutt’uno armonico, anche nei contesti metropolitani che regalano squarci avveniristici, dove nessun edificio è abbandonato a sé, ed in cui le città – come invece da noi – non sorgono attorno ad un “centro” ad uso e consumo delle classi medio alte, edificate su un centro che degrada ben presto in una periferia (immensa terra di nessuno) solcata da tratti viari congestionati, depositi di rifiuti la cui produzione indotta dall’iper-consumo è gestita da un ottica “non circolare”, e dall’urbanismo informale degli ultimi accanto a quartieri dormitorio lasciati all’incuria abbandonati a sé.


La nostra decadente “civiltà”, dopo il viaggio in Corea del Nord, per me ha assunto il profilo di una follia insopportabile, disvelando ancora più marcatamente il carattere distopico che caratterizza il nostro sistema di sviluppo. Vogliamo usare una metafora più smart: la nostra casa brucia, ad altre latitudini l’hanno capito meglio di noi ed il loro sistema economico pianificato gli permette di intervenire senza scontrarsi contro potenti lobby economiche, o quanto meno neutralizzandole.



Lì, dove non sono parchi sono campi o boschi, dove piccoli gruppi di capre s’intravedono andare ordinate in fila indiana, e dove sembra tutto costruito per rispondere ad un bisogno abitativo, ad edifici ad uso sociale – che siano per lo sviluppo culturale o per praticare lo sport -, oltre ad edifici ad uno amministrativo, per la maggior parte in particolare a Pyongyang, ed a sedi di stabilimenti come quello che abbiamo visitato in cui si imbottiglia un ottima acqua minerale che sgorga lì vicino.


Il paesaggio urbano colpisce perché non è dominato dall’automobile, le persone non camminano con gli occhi fissati sullo smartphone, entrambi beni di consumo il cui il possesso è limitato a chi ne necessita strettamente per lavoro; nei parchi le persone si ritrovano per pescare lungo i corsi d’acqua, dove i flussi del prezioso liquido giungono lavorati dalla fito-depurazione che trasforma gli scarichi fognari in acque pulite, a fare coreografie e praticare lo sport, semplicemente per stare insieme o a portare i bambini nei parchi…


L’attenzione alla cultura, intesa come sviluppo delle proprie capacità culturali e artistiche insieme alla pratica sportiva e l’attenzione all’educazione, in particolare dei bambini è impressionante. La visita da un dopo-scuola nella capitale che ospita 5.000 bambini ogni giorno, che possono praticare danza, suonare uno strumento o praticare le arti figurative, o la visita al Songdowon International Children’s Camp e alla Wonsan University of Agricolture ci rimanda immediatamente alla condizione dei coetanei in Italia e alla condizione dell’istruzione, ed in generale a cosa sia e che funzione abbia il sapere, dove tutto da noi è a pagamento e dove i genitori devono fare le collette o sviluppare forme di auto-finanziamento per permettere di svolgere l’attività didattica o garantire quel minimo ad una scuola per poter funzionare.


E vogliamo parlare della differenza tra una università pubblica e gratuita con un sistema sempre più fotocopia dei campus statunitensi dove un universitario si indebita “a vita” per compiere i propri studi, o dove un ricercatore che non ha possibilità di sbocco professionale in accademia deve andare all’esterno?


In metropolitana a Pyongyang ho visto bambini che studiavano con passione i propri appunti di matematica, persone che leggevano libri, una cosa sempre più rara alle nostre latitudini. Ho avuto l’impressione che la curiosità intellettuale venga stimolata come mezzo di crescita individuale e di miglioramento collettivo e che possa esprimersi attraverso una ampia gamma di possibilità in cui chi poi si dedica ad un impiego di concetto e responsabilità lo faccia con la coscienza che il suo contributo è prezioso quanto colui che pianta e raccoglie il riso a mano.


L’esercito svolge lavori civili, in questo tempo e per la storia che ha caratterizzato il Paese, l’esercito è il popolo in armi e il popolo in armi è l’esercito, a qualcuno farà storcere il naso, ma le immagini dell’esercito che spara sul proprio popolo in Cile dovrebbero far capire che la stessa istituzione può servire come una risorsa per la collettività così come essere semplicemente braccio armato del potere dell’oligarchia.

*


Dai finestrini, ma non solo, abbiamo osservato questo popolo laborioso che conduce una esistenza dignitosa e storicamente costretto ad affermare la sua sovranità prima contro la lunga dominazione giapponese, che ha caratterizzato gran parte della prima metà del secolo scorso; poi contro l’invasione statunitense (insieme alla Cina ed in parte all’Unione Sovietica) su risoluzione dell’ONU tra il ’50 e il ’53; e successivamente ha dovuto difenderla contro le pressioni degli stessi attori geo-politici che impongono una immagine della Corea degna della peggior propaganda di guerra.


Una caricatura che in Italia è una sintesi tra la stigmatizzazione negativa del comunismo, da DC degli anni ’50, e non dissimile dallo sguardo che il fascismo riservava ai popoli che aveva colonizzato di fatto disumanizzandoli, rappresentandoli come esseri inferiori ed arretrati, ma pronti ad accogliere la nostra superiore civiltà che li aiuta a “liberarsi” da un dispotico governo locale.


Una “induzione allo sguardo” che producendo lo stereotipo di un popolo bellicoso, agisce uno stravolgimento della realtà.


Il popolo coreano è costretto a difendersi dagli Stati Uniti che dalla loro “occupazione” del Sud alla fine della Seconda Guerra Mondiale non hanno mai abbandonato la Penisola, hanno pesantemente condizionato la politica della Corea del Sud – per usare un eufemismo – imponendo un sistema politico che non è stato proprio un campione della democrazia (anche usando criteri interpretativi liberali), e soprattutto ha costantemente impedito l’unificazione della Penisola e il ricongiungimento di questo popolo.


Allo stesso tempo il popolo coreano si difende da un Giappone che non ha mai smesso – ed oggi è palese – di coltivare i propri retaggi e sogni imperiali sull’Asia tutta – certo subordinatamente a Washington di cui è fedele alleato – e che si appresta attualmente a resettare la sua società e sviluppare il suo strumento militare – in specie marina ed aereonautica – in chiave bellicistica.


Una dominazione feroce, la deportazione di massa in Giappone di coreani divenuti schiavi nella macchina produttiva imperiale del Sol Levante, la riduzione in schiavitù sessuale di massa delle donne coreane divenute “comfort woman” per i soldati nipponici, nonché una feroce repressione dei partigiani coreani, sono alcuni dei tratti che hanno caratterizzato il “fascismo giapponese” e che sono ancora vivi nella memoria, grazie ad una politica – che a differenza delle nostre latitudini – non promuove il revisionismo storico e l’oblio della Lotta di Liberazione e che è un carattere identitario forte della Corea del Nord e della sua ragione d’essere. Da cui deriva tra l’altro la legittimità della leadership coreana fino ad oggi, impegnata a dirigere, come fu Kim Il Sung – contadino che a 14 anni decise di dedicare la sua esistenza così come fece la sua famiglia – alla lotta contro l’occupante nipponico.


E cosa dire della guerra di Corea, in cui i crimini di guerra statunitensi non sono stati inferiori a quelli perpetrati nei confronti del popolo vietnamita, con bombardamenti a tappeto che hanno distrutto praticamente tutto – i siti storici sono appunto tali dove è stato ricostruito quasi tutti dalle tombe di uno dei regnanti del periodo Korio al tempio buddista che abbiamo visitato -, alle stragi di civili, fino al probabilmente al primo esempio di “guerra batteriologica” con il bombardamento di insetti infettati!


Chi mai qui c’ha raccontato “il punto dei vista dei coreani” su quella che noi abbiamo potuto apprezzare nella visita al Victorius Fatherland Liberation War Museum, che ci ha regalato un incontro toccante, quello con uno dei militari coreani che ha partecipato al sequestro della nave spia americana “Pueblo” nel 1968, convertita lì in museo galleggiante.


Ecco pensate solo una cosa, questo è un popolo che prima di quello vietnamita è letteralmente vissuto sottoterra ed in montagna per sconfiggere lo “Zio Tom”, e la vita in questi tunnel sotterranei è minuziosamente ricostruita in questo museo che ricorda a tratti quello della “grande guerra patriottica” a Mosca.


E questi tre elementi, il periodo Korio durato circa 400 anni dal Nono Secolo al Tredicesimo, la guerra anti-giapponese e quella che chiamiamo guerra di Corea che sono i vettori identitari, in specie gli ultimi due, che compongono il cuore del senso d’appartenenza di un Paese che in condizioni non facili ha dovuto fare tendenzialmente da sé, ha scelto una strada diversa da quella intrapresa dal PCC dopo la morte di Mao, ha resistito alla fine del “blocco sovietico”, ed ora con una crisi mondiale che dura da dieci anni – in realtà dagli anni ’70 – può offrire numerosi spunti soprattutto a quei popoli del Tricontinente che vogliono affermare la loro indipendenza ed un percorso che li sganci dai propri protettorati neo-coloniali e resistere alle pressioni imperialistiche, quel “de-linking” di cui parlava Samir Amin.


La resistenza prima al Giappone poi agli States, e poi il tentativo di costruzione di una società su basi egualitarie che soddisfi i bisogni principali delle persone sono il collante ideologico dentro una cultura differente dalla nostra, con cui abbiamo difficoltà a rapportarci (la “codificazione” e la “ritualità” sono spesso espunte dalla nostra sfera culturale), ma che va compresa pena uno shock culturale che giudica prima di capire, e soprattutto che non è in grado di mettersi in discussione, di relativizzarsi, di non concepirsi se non come “superiore” e destino manifesto dell’umanità tutta.


Chissà perché la giusta critica allo sguardo eurocentrico e neo-coloniale non si esercita anche nei confronti della visione di questo Paese, della sua storia millenaria e del suo popolo che aspira all’unificazione?


Giustamente noi viviamo “nel migliore dei mondi possibili”, e venire a cercare di guardare con i propri occhi un Paese per certi versi culla della civiltà asiatica anche nei suoi prodotti maggiormente apprezzati dai “cultori dell’Oriente” è qualcosa di quasi risibile, al massimo tollerabile in chiave esotica o retaggio di una cultura politica “sconfitta” dalla storia dove persone soggette ad una strana forma di allucinazione vedono proiettato il “paradiso in terra”…


E uno si ritrova a dovere cercare di rendere intellegibile ciò che ha visto e vissuto, una rappresentazione che non ha “cittadinanza” se non perpetua gli stereotipi vomitati che ormai costituiscono quasi un genere letterario a sé e, se ti azzardi ad un minimo di curiosità e di onestà intellettuale, sei colpito da quella sorta di “sindrome di Dragonda”, come Marco Polo che racconta di un mondo che non può essere capito perché va oltre i parametri culturali dell’Occidente capitalista ombelico del mondo.


Appare paradossale ma nell’arco di tempo tra la partenza per la Corea del Nord e l’arrivo in Italia due fatti tendenzialmente ignorati dall’informazione mainstream hanno catturato la mia attenzione e si sono impressi nel mio immaginario, in certo modo collegati al viaggio.


Il primo è l’inizio dei processi negli Stati Uniti contro le case farmaceutiche che con le loro politiche di “marketing aggressivo” – per usare un eufemismo – hanno indotto al consumo di massa degli oppioidi, con il benestare di una parte rilevante del corpo dei medici divenuti “spacciatori”, facendo diventare le persone dipendenti prima generalmente dall’eroina e poi dal Fetanyl. Le stime parlano di 400.000 vittime, nel senso stretto di persone decedute!


in Italia abbiamo letto solo qualche trafiletto sui giornali, perché la nostra informazione è libera, naturalmente, di rimuovere il fatto che una parte dell’establishment economico statunitense – per la logica del profitto – ha scientificamente condannato a morte (o comunque procurato una dipendenza difficilmente guaribile e gestibile) milioni di persone, illudendole di poter alleviare il loro dolore e riservando loro un futuro da tossicodipendenti, disposti a procurarsi qualsiasi sostanza.


Non è questa una forma di dittatura, dove le esigenze del big business relegano l’esistenza delle persone a “nuda vita”, scarti da cui trarre profitto e nulla più, e che solo tardivamente è costretta a farsi carico di un sterminio quando la cosa ormai diviene ingestibile?


E un “regime” che assicura le garanzie sociali alle persone, anche se non rientra nei canoni formali della rappresentanza politica occidentali, cos’è?


Il secondo fatto è il crollo di Thomas Cook, una dei big dell’industria turistica, nonché la più vecchia agenzia di quel tipo anglosassone, quasi una istituzione, con conseguenze imponderabili visto che si trattava di una multinazionale: perdita di posti di lavoro, persone lasciate a terra negli aeroporti, gente che aveva anticipato i soldi del viaggio che rischia di non essere accolta negli alberghi prenotati, e vari soggetti della filiera turistica che impazziranno per avere i propri conti saldati, cosa che causerà altri perdite economiche, tagli di posti di lavoro, eccetera.


È stato davvero paradossale, di fronte al crollo di questa multinazionale del turismo – i cui i manager hanno incassato lauti stipendi, gli azionisti i propri dividendi, anche di fronte ad una situazione di indebitamento colossale tale da rendere impossibile qualsiasi piano di salvataggio anche dei big cinesi, che ha lasciato letteralmente i suoi dipendenti, i suoi clienti e la sua filiera con l’indotto “con il culo per terra” – chiedermi e chiederci conto della serietà del turismo in Corea del Nord. Dove abbiamo invece alloggiato in strutture meravigliose, accompagnati da guide professionali sempre pronte ad ascoltare e soddisfare le nostre richieste e a rispondere delle nostre domande, e che hanno dimostrato un grande senso di cura in un Paese in cui non si ha mai – MAI – la percezione di sicurezza precaria…


Impossibile “slegare” la mia vita quotidiana da un viaggio che ti scava dentro e non inserirla in un percorso di ricerca quotidiana di lettura della realtà, “come un decifratore di sciarade”, per parafrasare Pessoa.


Ringrazio i miei compagni e le mie compagne di viaggio e l’associazione “Le Magnolie” – viaggiare in Corea del Nord, perché ora una delle mie canzoni preferite (“Ma chi dice che non c’è”, di Gianfranco Manfredi), assume sfumature diverse…

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