L'ultima fase dell'Impero: un governo dei ricchi per i ricchi

La questione delle tariffe trumpiane costituisce l’argomento del giorno per i suoi risvolti sulle relazioni internazionali e sul nostro futuro. I loro fautori appaiono arroganti ma incerti e invece di risollevare l’economia Usa finiranno con l’affossarla. Noi ce lo auguriamo.

7052
L'ultima fase dell'Impero: un governo dei ricchi per i ricchi

 


di Alessandra Ciattini Futura Società

Tra le ultime notizie di oggi (9/4) apprendiamo che, usando bastone e carota, il capocirco Donald Trump ha ridotto al 10% per 90 giorni le nuove aliquote tariffarie sulle importazioni alla maggior parte dei partner commerciali degli Stati Uniti, annunciate “il Giorno della liberazione”, per avviare negoziati commerciali con quelli che li hanno chiesti, circa 75 Paesi. Al contempo, ha annunciato dazi contro la Cina al 145% per la “sua mancanza di rispetto verso i mercati”.

Un’ulteriore manifestazione di debolezza e di confusione mentale (per essere moderati). Ma la Cina non sembra piegarsi e ha aumentato i dazi sui prodotti Usa al 145% oltre a proibire l’esportazione di alcune materie critiche; inoltre, il ministero del Commercio cinese ha presentato un ricorso all’Omc, in cui si sostiene che i dazi violano le norme sul commercio internazionale, affermando inoltre che il grande Paese asiatico difenderà i suoi diritti legittimi e l’ordine economico internazionale. Non bisogna dimenticare che la Cina, dopo il Giappone, è la seconda detentrice del debito Usa, circa 800 miliardi di cui sembra si stia disfacendo insieme ad altri detentori, e ciò ha portato al preoccupante aumento del tasso di interesse sui bond.

Come al solito si parla di Trump senza cercare di capire cosa c’è dietro e magari anche occultando la dominanza degli interessi privati suoi e dei suoi soci nella sua stramba strategia politica, ben illustrati da Fosco Giannini: (https://futurasocieta.com/2025/04/07/criptomoneta-nuovo-potere-usa-e-lotta-interimperialista-sul-terreno-virtuale/).

Anche i media alternativi insistono nella personalizzazione della politica, figlia del cosiddetto star system che ci deriva dalla nota società dello spettacolo, che ha raggiunto livelli di volgarità e grossolanità mai visti finora. Sarebbe il caso di smetterla col chiamare sempre in causa il grottesco Donald Trump, i cui comportamenti ricattatori somigliano a quelli di un gangster che ti intima improvvisamente “o la borsa o la vita”. Sappiamo bene che, soprattutto in questa fase, i politici sono solo la facciata di quello che sta dietro le quinte, da cui ogni tanto trapela qualche cosa, e che sono impiegati per indirizzare su di loro la colpa delle disastrose politiche antipopolari decise in altro luogo, certo con la loro piena connivenza e per favorire i loro stessi interessi. E, aggiungo, molti di loro non sono neppure eletti e, pertanto, hanno nelle mani un potere che va al di là di quanto prevede la cosiddetta democrazia borghese, o meglio – come soleva dirsi – volgare.

Basti pensare alla Commissione europea, organo esecutivo della fatidica Unione, composta da 27 membri scelti dai governi dei rispettivi Paesi, messa in opera dalle associazioni padronali nazionali o internazionali o dalle più svariate lobby, dai qatarioti ai sionisti.

A mio parere non ha nemmeno senso sostenere che la particolarità di Trump deriva dal fatto che è un uomo d’affari senza principi, quando un principio lo possiede bello e chiaro: massimizzare il profitto con qualsiasi forma di concorrenza spietata o, quando ciò non è possibile, ricorrendo al protezionismo e a quella che David Harvey ha definito accumulazione per espoliazione, appropriandosi di quei beni (Groenlandia, i nostri risparmi, etc.), con la scusa che sono indispensabili alla sicurezza del suo Paese depredatore nei secoli. Principio intimamente connaturato al sistema capitalista che, oggi, non ci si vergogna più di ostentare apertamente, evitando il pietoso velo delle chiacchiere sulla libertà, sui diritti umani, etc. 


Andiamo a vedere come è composta la squadra di Trump cui è affidata l’economia, che dovrebbe realizzare il programma elettorale del presidente: abbassare l’inflazione, imporre tariffe (la parola più bella del vocabolario trumpiano) aggiuntive ai Paesi nemici o “alleati”, aumentare la produzione di combustibili fossili e incentivare tagli fiscali per i ricchi, cui ha aggiunto per demagogia il taglio delle tasse sulle mance ricevute dai lavoratori più poveri. Della squadra fanno parte i miliardari Scott Bessent, investitore e gestore di hedge fund, a capo del Dipartimento del Tesoro, il quale è apertamente gay, sposato, con due figli ottenuti con la maternità surrogata, in forte contraddizione con l’ideologia repubblicana.

Ci sono, poi, il miliardario Howard Lutnick, Ceo della società di servizi finanziari Cantor Fitzgerald, che funge da segretario al Commercio, il dirigente petrolifero Chris Wright per realizzare il programma tariffario, appena lanciato, e l’applicazione della deregolamentazione; questi è Ceo di Liberty Energy, negazionista del cambio climatico e donatore della campagna elettorale. Poi, è stato nominato capo del Trade Representative Jamieson Lee Greer, che ha partecipato ai negoziati commerciali con Cina, Canada e Messico durante il primo mandato di Trump.

Il National Economic Council è diretto dall’economista Kevin Hassett, forte sostenitore dei tagli alle imposte sulle società. Russell Vought è stato scelto, invece, per l’Office of Management and Budget, con lo scopo di rivedere le normative federali e semplificare le procedure. È anche una figura chiave del Progetto 2025, elaborato dalla Heritage Foundation di estrema destra, che sta alla base del programma di Trump. A questi si aggiunge Stephan Miren, principale ideatore e sostenitore delle politiche tariffarie su cui ha scritto un report che funge da guida alle azioni della nuova amministrazione. Non è chiaro se la nuova politica economica Usa intenda fortificare o indebolire il dollaro, giacché il suo rafforzamento ne manterrebbe il ruolo privilegiato, mentre l’indebolimento favorirebbe le esportazioni Usa verso gli altri Paesi. 

Secondo il già citato Miren la politica tariffaria avrebbe l’obiettivo di indebolire l’economia degli altri Paesi, obbligandoli a comprare merci Usa o a investire nella potenza ormai deindustrializzata, promuovendo così la produzione nazionale e la massa delle esportazioni, ridottesi negli ultimi anni, tanto che oggi gli Usa sono solo il terzo Paese esportatore e le esportazioni costituiscono solo il 10% del loro Pil. Con questi obiettivi le nuove tariffe (verso 180 Paesi), che dovrebbero fruttare, secondo il solito Trump, due miliardi al giorno e 700 l’anno, costituiscono un vero e proprio strumento di ricatto per costringere amici e nemici ad accettare nuovi accordi. In particolare, in previsione della scadenza semestrale degli interessi sul debito occorre trovare 9 miliardi di dollari. E Trump considera realistico che Xi Jiping gli faccia una telefonata, quando questi ha dichiarato: “L’economia cinese non è uno stagno, ma un oceano e può resistere anche ai venti contrari”, con una bella metafora in stile cinese.

Comunque, l’aspetto fondamentale della faccenda, da qualunque prospettiva la si voglia guardare, è che il governo Trump è un governo dei ricchi per i ricchi o, se si vuole, che dà il potere a chi già lo detiene, anche se nella sua strategia si osservano molte contraddizioni che potrebbero ostacolare il raggiungimento dell’America First tanto desiderato dai suoi affezionati; contraddizioni che stanno venendo alla luce. Si veda, per esempio il recente scontro tra il grande Elon Musk e il consigliere commerciale di Trump sulle amate-odiate tariffe, Peter Navarro.

Chiedendo l’abolizione delle tariffe, il primo ha definito il secondo “un’idiota”, mentre quest’ultimo ha chiamato Musk “assemblatore di auto”, accusandolo di mettere insieme pezzi prodotti all’estero, dimenticandosi che è stata la cosiddetta globalizzazione a generare le catene del valore, che ora sembrano ritorcersi sul potere complessivo degli Usa.

In effetti, se vogliamo fare un’analisi obiettiva, a partire dalla fine degli anni ’60 si è rotto il patto keynesiano nei Paesi a capitalismo avanzato (detti scorrettamente Occidente), il tasso di profitto ha cominciato a decrescere e la soluzione, scelta proprio da quelli che l’hanno voluta e praticata, è stata il trasferimento delle attività produttive nei Paesi in cui il costo della manodopera era meno caro, la sindacalizzazione meno diffusa se non proibita, cui occorre aggiungere l’introduzione in patria di una flessibilità lavorativa sempre più spinta. Insomma, si è dato nuovo impulso al profitto abbassando i costi del lavoro e, al contempo, distruggendo l’infrastruttura industriale, alimentando la rendita finanziaria e le economie emergenti, in primis la Cina, ora vista come il peggior nemico. Se ne è accorto persino «Il Fatto quotidiano», rappresentante dell’opposizione compatibile.

I grandi giornali ci fanno sapere che le borse sono in calo ovunque, in parte poi si sono riprese, si è verificata la diminuzione del prezzo del petrolio, vanno male le corporazioni che dipendono dall’estero (come Apple, Nike), si parla di recessione e alcuni esponenti del mondo economico esprimono forti critiche alla politica tariffaria. La signora Ursula ha proposto negoziati, di cui si farà messaggera la Meloni presso colui che alcuni chiamano “l’agente arancio”.

Nel frattempo, la Cina si è incontrata con il Giappone e la Corea del Sud per far fronte alla valanga di tariffe e avviare probabilmente un accordo di scambio trilaterale. Molti prospettano l’aumento del ruolo economico della Cina in Asia e in altre regioni del mondo per la sua politica non aggressiva e in funzione anti-Usa, mentre altri prospettano la creazione di aree regionali di libero commercio sempre più indipendenti dagli Usa. Questo stesso processo potrebbe realizzarsi anche in America Latina dove gli investimenti cinesi si stanno notevolmente espandendo. Espansione che preoccupa molti apologeti dell’imperialismo “libertario” degli Usa che dal suo sorgere ha fatto molto di peggio per ampliare a dismisura il suo spazio da esso ritenuto vitale.

Hilary Clinton ha definito stupido il potere di Trump, ma lui scommette che presto la borsa avrà un boom e che dopo la sofferenza indispensabile tornerà la prosperità, non cogliendo o negando i gravissimi problemi del suo Paese.

E non parliamo della vergognosa deportazione degli incolpevoli immigrati, indispensabili al sistema economico Usa, i quali sono costretti a tornare in Paesi che non hanno un lavoro in cui impiegarli, a causa del sottosviluppo provocato dal vecchio e dal nuovo colonialismo.

Se, infine, saranno varati, i dazi provocheranno la crescita dell’inflazione e il conseguente aumento dei prezzi dei beni di consumo, in gran parte forniti dalle industrie cinesi attraverso Walmart, i cui bassi costi hanno consentito alle famiglie dei lavoratori di sopravvivere finora. Inoltre, l’ipotetico trasferimento delle fabbriche costituisce un processo costoso e di lunga durate, che rimette in discussione la cosiddetta globalizzazione basata sulle citate catene di valore.

last but not least, per produrre profitti occorrerà abbassare i salari dei lavoratori statunitensi al livello di quelli messicani, colombiani, peruviani etc., ostacolando qualsiasi tentativo di sindacalizzazione, come già è avvenuto in Stati come Georgia, Tennessee e Kentucky, dove i lavoratori del settore auto hanno meno diritti e ricevono un salario più basso rispetto a quelli attivi in altri Stati.

Infine, l’introduzione delle tariffe condurrà a un aumento dei prezzi, a una diminuzione della domanda, cui seguirà un forte calo delle importazioni e, quindi, al conseguente calo del gettito fiscale, mentre i Paesi esportatori, come hanno fatto Russia e Cina e sta facendo anche il Canada, troveranno sbocchi commerciali alternativi.

C’è da chiedersi: nella congrega su descritta di miliardari, per lo più vecchiotti, sedicenti esperti di economia e di speculazione finanziaria, c’è qualcuno in grado di ragionare? Purtroppo la risposta è negativa perché ogni loro ragionamento è permeato profondamente dalla prospettiva elogiativa del capitalismo e, pertanto, restano ciechi di fronte alla gravissima crisi strutturale del sistema, che essi stessi finiranno con l’affossare. Almeno si spera.

ATTENZIONE!

Abbiamo poco tempo per reagire alla dittatura degli algoritmi.
La censura imposta a l'AntiDiplomatico lede un tuo diritto fondamentale.
Rivendica una vera informazione pluralista.
Partecipa alla nostra Lunga Marcia.

oppure effettua una donazione

La resa (incondizionata) di Trump di Loretta Napoleoni La resa (incondizionata) di Trump

La resa (incondizionata) di Trump

Il Teatro delle Ombre arriva a Teheran (seconda parte) di Giuseppe Masala Il Teatro delle Ombre arriva a Teheran (seconda parte)

Il Teatro delle Ombre arriva a Teheran (seconda parte)

E’ cupo per l‘Italia il cielo sopra Bengasi di Michelangelo Severgnini E’ cupo per l‘Italia il cielo sopra Bengasi

E’ cupo per l‘Italia il cielo sopra Bengasi

Medio Oriente: scelta tra caos e riequilibrio internazionale   Una finestra aperta Medio Oriente: scelta tra caos e riequilibrio internazionale

Medio Oriente: scelta tra caos e riequilibrio internazionale

Trump 2025: Nativi Americani e Immigrati sotto Pressione di Raffaella Milandri Trump 2025: Nativi Americani e Immigrati sotto Pressione

Trump 2025: Nativi Americani e Immigrati sotto Pressione

L'intrinseca debolezza dell'Impero americano di Francesco Erspamer  L'intrinseca debolezza dell'Impero americano

L'intrinseca debolezza dell'Impero americano

Il resettaggio bellico del sistema-mondo di Geraldina Colotti Il resettaggio bellico del sistema-mondo

Il resettaggio bellico del sistema-mondo

La Gran Bretagna tornerà nell'Unione Europea? di Gao Jian La Gran Bretagna tornerà nell'Unione Europea?

La Gran Bretagna tornerà nell'Unione Europea?

Resistenza e Sobrietà di Alessandro Mariani Resistenza e Sobrietà

Resistenza e Sobrietà

La scuola sulla pelle dei precari di Marco Bonsanto La scuola sulla pelle dei precari

La scuola sulla pelle dei precari

Vincolo esterno: la condizione necessaria ma non sufficiente di Gilberto Trombetta Vincolo esterno: la condizione necessaria ma non sufficiente

Vincolo esterno: la condizione necessaria ma non sufficiente

Lavrov e le proposte di tregua del regime ucraino di Paolo Pioppi Lavrov e le proposte di tregua del regime ucraino

Lavrov e le proposte di tregua del regime ucraino

O si e' contro la Nato o si e' sua complice di Giorgio Cremaschi O si e' contro la Nato o si e' sua complice

O si e' contro la Nato o si e' sua complice

Registrati alla nostra newsletter

Iscriviti alla newsletter per ricevere tutti i nostri aggiornamenti