L'intervento occidentale in Ucraina e gli insegnamenti della Guerra del Peloponneso

L'intervento occidentale in Ucraina e gli insegnamenti della Guerra del Peloponneso

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In USA si sta pensando alle alternative alla guerra in Ucraina: finiscono le armi, gli arsenali domestici devono essere rimpinguati per sostituire quelle spedite a Kiev e, in generale, gli “alleati” danno segni di stanchezza. Naturalmente, il congelamento del conflitto è necessario all'Occidente solo per ripristinare il proprio potenziale militare e prepararsi a una nuova corsa agli armamenti. Ma tant'è.

Su The National Interest, il politologo Michael Guy tenta un parallelo tra lo scontro dell'Occidente con la Russia sul terreno dell'Ucraina, e la trentennale guerra che oppose la coalizione guidata dalla “democratica” Atene a quella capeggiata dalla “oligarchica” Sparta e che coinvolse l'isola di Melo che, abitata per lo più da coloni spartani, avrebbe voluto rimanere neutrale.

Nel servizio intitolato Lessons from the melian dialogue: A Case Against Providing Military Support for Ukraine, Guy si domanda: dato che la guerra in Ucraina continua e non sono cominciati i colloqui di pace, già da tempo noi avremmo dovuto chiederci se sia il caso di aiutare Kiev a ripristinare il controllo sull'Ucraina orientale, o se non sia meglio seguire un'altra strada. 

A differenza di Melo, che non aveva mai ricevuto aiuti spartani e la cui popolazione fu infine annientata dagli ateniesi, l'Ucraina ha ricevuto e riceve infiniti aiuti militari occidentali. Mosca continua ad ammonire che il sostegno militare all'Ucraina potrebbe portare a una guerra a tutti gli effetti tra NATO e Russia; dopotutto, scrive Guy, «le armi americane e di altri membri della NATO sono inviate in Ucraina per uccidere i soldati russi». Secondo Guy, l'analogia tra la situazione attuale e i tucididei Dialoghi di Melo, consiste nel fatto che «ognuna delle parti rifiuta di sedersi al tavolo delle trattative, finché l'altra non sarà d'accordo su richieste inaccettabili». Sul tappeto ci sono la linea di confine tra Russia e Ucraina e l'adesione di Kiev alla NATO: quale compromesso potrebbe essere possibile?

C'è un'altra affinità con la guerra di quasi duemilacinquecento anni fa, nota Vasilij Stojakin su Ukraina.ru: la strana posizione di Melo, pienamente convinta del sostegno di Sparta, nel caso Atene avesse attaccato, come poi effettivamente si verificò. Stojakin sostiene che Atene non avesse affatto minacciato Melo (su questo, ci permettiamo qualche dubbio; scrive Tucidide «I Meli però, anche dopo aver subito la devastazione della loro terra, non si arrendevano»); ma, in definitiva, lo scontro era tra Atene e Sparta e gli emissari ateniesi non fecero altro che mettere Melo di fronte alla realtà: «voi sapete tanto bene quanto noi che, nei ragionamenti umani, si tiene conto della giustizia quando la necessità incombe con pari forze  su ambo le parti; in caso diverso, i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano» (Tucidide).

Altro elemento di paragone con le guerre del Peloponneso: l'Occidente, dice Guy, con le forniture d'armi ha dato all'Ucraina una speranza d'aiuto, che però non ci sarà, così come Melo era sicura dell'arrivo di Sparta in soccorso, che non avvenne. Ed è proprio quella speranza a rafforzare il rifiuto del compromesso da parte di Kiev, mentre Washington, da parte sua – è ancora Guy a parlare – è simile a Sparta: solitamente, è restia a correre pericoli in prima persona, e men che mai oggi, quando c'è il rischio del ricorso all'arma atomica. Preferisce, diciamo noi, far massacrare i “barbari”.

Così, conclude Guy, ci sono soltanto due possibili esiti: o una gran parte dell'Ucraina rimane sotto il controllo di Kiev, o l'intera Ucraina sarà ridotta in cenere, la sua leadership rovesciata e tutto il paese potrebbe essere annesso; questo, anche se continueranno le forniture occidentali di armi. E se l'epilogo logico dell'attuale corso della guerra, afferma Guy, sembra dover essere l'impiego di armi nucleari, allora è meglio cessare ogni sostegno all'Ucraina.

Ora, nota Stojakin, le posizioni di The National Interest non sono tra quelle che vadano per la maggiore tra i vertici USA, ma il servizio di Michael Guy si inserisce nella campagna mediatica cui prendono parte altre pubblicazioni ben più influenti, quali CNN, Newsweek International, The New York Times, che cercano di convincere l'Ucraina ad accettare un compromesso. È improbabile che l'Occidente abbandoni semplicemente l'Ucraina, senza mercanteggiare le condizioni più accettabili per Kiev. Ma in ogni caso sembra che si vada verso la ripresa dei processi negoziali.

Pare anzi, stando a The Wall Street Journal, che Joe Biden, durante la recente visita a Varsavia, abbia fatto pressioni sui Baltici, perché non insistano troppo nelle loro urla a sconfiggere la Russia in Ucraina. Ricordiamo che a gennaio, Estonia e Lettonia hanno ridotto i rapporti diplomatici con Mosca; e lo stesso premier polacco Mateusz Morawiecki aveva detto al Corriere della Sera che «Sconfiggere la Russia è una ragion di Stato sia polacca che europea». Di contro, lo scorso 24 febbraio, ancora TWSJ riportava che Emmanuel Macron e Olaf Scholz avevano “consigliato” a Zelenskij di procedere a colloqui con Mosca. In un'intervista alla CNN, Scholz aveva dichiarato che «siamo pronti a organizzare un preciso tipo di garanzie per questo paese nel futuro periodo di pace. Ma non abbiamo ancora raggiunto tale punto». Il premier britannico Rishi Sunak penserebbe a un maggior afflusso di armi a Kiev dopo la fine della guerra guerreggiata, come “garanzia di sicurezza”. Secondo la tedesca Bild, l'Occidente intenderebbe accrescere ora le forniture di armi, in vista di una controffensiva primaverile ucraina e, in caso di insuccesso, chiedere a Kiev di iniziare le trattative con Mosca.

Per la CNN, il conflitto è finito in un vicolo cieco e un compromesso sarebbe possibile se l'Ucraina consentisse a garanzie di sicurezza NATO che, ovviamente, non si estenderebbero ai territori controllati dalla Russia. A ovest, naturalmente, si respingono le proposte che vengono da Pechino o da Minsk; il politologo-americanista russo, Malek Dudakov, dice chiaro e tondo che le attuali discussioni sulla stampa occidentale a proposito della fine del conflitto sono generate più che altro dai timori elettorali, data l'opposizione alla guerra di gran parte delle persone: «in realtà, credo che nessuno dei politici abbia davvero intenzione di arrivare a colloqui di pace», dice Dudakov.

A parere del direttore della rivista Rossija v global'noj politike, Fëdor Luk'janov, gli USA vogliono regolare in prima persona la situazione ucraina e, nonostante che certe dichiarazioni di Baltici e Polonia non contraddicano la logica generale yankee, oltrepassano spesso i limiti dettati da Washington. È su questa linea anche il direttore del Consiglio per gli affari internazionali, Andrej Kortunov, secondo il quale una completa disfatta della Russia, come gridano i Baltici, non è vantaggiosa per l'Occidente, anche perché questa porterebbe all'ulteriore rafforzamento della Cina e rischierebbe di generare un vuoto nell'area dell'Asia centrale ex sovietica, nel Caucaso meridionale e in Medio Oriente: «è legata a tutti questi momenti, la popolarità dell'idea di una soluzione pacifica del conflitto... gli umori cambiano, via via che diventa sempre più chiaro a tutti che un successo militare dell'Ucraina è sempre meno reale». E la Casa Bianca non intende legarsi le mani con urla più o meno sguaiate lanciate dai vari vassalli, pur in linea con quanto si pensa sul Potomac.

Intanto, però, RIA Novosti, su fonte del consigliere presidenziale turco Chagry Erhan, riferisce che Washington e Londra fanno di tutto per annullare i tentativi di Erdogan di organizzare un incontro Putin-Zelenskij. Evidentemente, se gli Stati Uniti stanno architettando piani per la conclusione del conflitto, con colloqui di pace e la divisione dell'Ucraina, come prospettato da National Review, vogliono che questo avvenga secondo i calcoli del Pentagono. E se un qualche paese dovesse intervenire quale mediatore, che sia non un attore imprevedibile quale il presidente turco, ma un subalterno affidabile della Casa Bianca. Uno, insomma, ben sprofondato nell'ottava bolgia, quella dei consiglieri di frode.

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