'Vuoi morire da martire o da traditore?'

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di Paola di Lullo

È una domenica come tante a Gerusalemme, lo scorso 9 ottobre. Il cielo è sereno, fa ancora caldo, per strada c'è movimento. 

Intorno alle 10,30, un uomo, palestinese, armato, irrompe sulla folla radunata di fronte al quartier generale della polizia israeliana e, correndo verso la stazione della metropolitana di Ammunition Hill, colpisce una donna di 60 anni, Levanah Malichi, che morirà poco dopo in ospedale. 

La corsa dell'uomo prosegue verso un incrocio dall'altra parte della stazione di polizia, dove apre il fuoco contro una donna alla guida della sua auto. Fugge quindi verso Sheikh Jarrah, inseguito dalle forze speciali della polizia israeliana, spara contro di loro, ferendo gravemente il Primo Sergente Yosef Kirme, che morirà poco dopo, ed un suo collega. 



I media israeliani riferiranno che l'uomo ha ferito, in totale, 7 persone e ne ha uccise 2, prima di essere raggiunto ed, a sua volta, ucciso da una pioggia di proiettili.  

Il link del video dell'uccisione del palestinese.

Ma, in questo caso, diversamente dal solito, la polizia israeliana non rilascia alcuna informazione sull'uomo, né il suo nome. Di solito, subito dopo questo tipo di attacchi,  il comunicato stampa israeliano descrive dettagliatamente l'accaduto,  l'identità del killer, il nome del suo villaggio natale e alcuni dati personali. Stavolta, viene, insomma, applicato il cosiddetto "gag order".



Il killer, per la comunità internazionale, il martire, per chi crede nella lotta per la giustizia del popolo palestinese, si chiamava Abu Sbeih, aveva 39 anni ed era di Silwan, un villaggio di Gerusalemme est violentemente assediato dai coloni israeliani che vorrebbero giudaizzarlo, espellendo gli attuali residenti.

Ma torniamo al gag order.

L'ultima volta era stato imposto nel caso di Nasha'at Milhem, il cui padre era un informatore dello Shabak. Milhem, che tentò ad uccidere l'agente dello Shabak che "coordinava" il padre, fu motivato dalla vendetta contro l'agenzia. Il gag order fu applicato per proteggere lo Shabak dall'imbarazzante rivelazione che un familiare di un suo collaboratore aveva preteso vendetta e che dei civili innocenti erano stati uccisi a causa delle azioni di un capo delle spie.

Il caso di Abu Sbeih è diverso. Lo Shabak lo ha scelto come infiltrato, perché appartenente al gruppo Murabitun, un gruppo di attivisti palestinesi nato in risposta alla repressione israeliana contro l'ingresso dei musulmani ad  Haram al Sharif ( letteralmente il Monte del Tempio, meglio conosciuto come la Spianata delle Moschee ). Il Murabitun era il più importante gruppo tra la comunità palestinese e la spina dorsale dell' opposizione. Qualsiasi  agenzia di spionaggio avrebbe voluto "entrare" in questo gruppo. Abu Sbeih è stato il biglietto d'ingresso dello Shabak.



Ma quando si recluta un collaboratore, una spia, lo si espone a gravi pericoli e, molto spesso, si firma la sua condanna a morte. È ciò che è successo in questo caso.

Lo Shabak non ha protetto Abu Sbeih, dopo averlo convinto a diventare un loro informatore,  lo hanno lasciato esposto. L'unica incertezza, per lui, era se sarebbe morto per mano della polizia israeliana o di vendicatori palestinesi.

E qui arriva Hamas. Ben prima di rivendicare l'attentato, aveva  scoperto il ruolo di spia di Abu Sbeih. A quel punto, gli aveva offerto due scelte: morire da traditore o da martire.

Gli aveva anche promesso che se avesse scelto di attaccare gli israeliani lo avrebbero riconosciuto come uno shaheed ed il suo tradimento non sarebbe mai stato menzionato.

L'uomo ha scelto di morire da martire. E, forse, davvero, per una volta, la verità sarebbe dovuta rimanere nascosta.



Fonti : Ma'an News Agency
            Richard Silverstein

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