Clinton o Trump? A Vincere e' Sempre la Politica Estera Americana

Clinton o Trump? A Vincere e' Sempre la Politica Estera Americana

Poche settimane e conosceremo l'esito dell'elezione presidenziale più controversa di sempre. Pochi dubbi sul vincitore, che con ogni probabilità sarà Hillary Clinton. Media nazionali ed internazionali non mancano di rimarcare con sicurezza la vittoria della candidata Democratica. I numeri dei sondaggi vedono Clinton avanti con una media di 5-6 punti.

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di Federico Pieraccini

In merito all’autenticità del processo elettorale Americano, è d’obbligo partire dai media. L'80% è apertamente schierato contro Trump e a favore di Hillary Clinton, condizionando l'esito delle elezioni con notizie omesse, ignorate o volutamente falsate evitando di danneggiare irrimediabilmente la candidata democratica. Le infinite rivelazioni di Wikileaks in merito alla collusione tra i democratici e l’establishment giornalistico dimostrano inequivocabilmente come esista un piano ben specifico per impedire una vittoria di Trump. Questa parzialità delle informazioni riportate ai cittadini influiscono enormemente sulla scelta finale in termini di voto, favorendo apertamente la candidata Democratica.

Pertanto, è più che corretto affermare che con un’informazione decisamente di parte e una serie di sondaggi a favore della Clinton, è difficile immaginare un esito diverso da quello più scontato e fasullo. E’ anche vero però che esistono fattori a favore di Trump, spesso ignorati, come la componente silenziosa del suo elettorato, timida ad esporsi nei sondaggi fittizi usati per manipolare l’opinione pubblica. Ad ogni modo, queste elezioni vedranno il trionfo del candidato che maggiormente sarà in grado di attirare ai seggi nuovi elettori. In tal senso, i tanti che si dichiarano pro-Clinton, potrebbero restare a casa l'8 Novembre, completamente sfiduciati dai numerosi scandali della candidata Democratica, nonostante la censura dei media. Una differenza lampante tra le due campagne presidenziali riguarda l’energia dei sostenitori. La base di Trump è viva e respira un’aria di rivoluzione, quella della Clinton fatica ad animarsi. Un fattore che potrebbe risultare decisivo se i margini dovessero ridursi (o rivelarsi falsi). Basterebbero queste notizie per definire completamente corrotto fino al midollo, tutto il sistema elettorale degli Stati Uniti. Tra media non imparziali, finanziamenti occulti alla
Clinton Foundation, Wikileaks e hacking ai danni della DNC (comitato nazionale dei democratici), è facile dedurre come il cosiddetto del "Deep State" (Stato Profondo) sia apertamente schierato a favore della Clinton.  

Ciò detto, Hillary Clinton resta la candidata favorita vincere le elezioni, con percentuali bulgare intorno 92% se dovessimo dar retta al New York Times. Senza dimenticare che l’esito, qualunque esso sia, ci consegnerà il presidente più contestato delle storia recente degli Stati Uniti, con tutte le conseguenza del caso. Esiste qualcosa di più impopolare, alla fine di questo ciclo elettorale, dei due candidati? Probabilmente i 18 mesi che ci hanno accompagnato alle elezioni generali. Forse però è più interessante chiedersi, una volta eletto, che tipo di presidente potrebbe essere Hillary Clinton.

 

La risposta più scontata è quella di un presidente belligerante, pronto ad imporre la propria visione del mondo a suon di guerre e bombe. Eppure, più si approfondisce la tematica e maggiormente ci si rende conto che forse una tale descrizione è troppo generica ed imprecisa. La Clinton, prima di tutto, è soprattutto un presidente in mano ai suoi donatori e raramente un presidente degli Stati Uniti può decidere autonomamente le strategie in merito alla politica estera da condurre. Clamoroso esempio fu Obama con la famosa intervista a Goldberg su The Atlantic in cui raccontò quella che avrebbe voluto fosse la sua dottrina di politica estera: meno coinvolgimenti in giro per il mondo e un maggior uso del Soft-Power per ottenere avanzamenti geopolitici. Obama durante la sua presidenza è stato molto più a favore dei tentativi di espandere l’influenza USA in Ucraina con l’uso dei battaglioni neo-nazisti o con l’uso di terroristi in Siria piuttosto che con impiegare truppe di terra americane, questione ormai impraticabile. Anche e soprattutto per questi motivi, in patria è considerato un presidente debole e poco interessato alla politica estera. Obama non è un pacifista, ci mancherebbe, ma è pur vero che spesso si è opposto ad un confronto diretto con Russia e Iran in diversi scenari.

Tornando alla Clinton: chi sono i suoi padroni? Alleati regionali (Arabia Saudita e Qatar) in primis, grazie a donazioni generose avranno tutte le capacità di pretendere concessioni specifiche in situazioni riguardanti il Medio Oriente (M.O). In secondo luogo ci sono le élite americane che hanno ben più di un interesse nel mantenere il ruolo degli USA nel mondo, prolungando il momento unipolare.

 

E’ per questo motivo che Clinton probabilmente non sarà altro che una copia di Obama in termini di politica estera ma con ben altre concessioni agli alleati regionali in medio oriente. Una visione certamente più vicina ai neoconservatori, ma entrando nello specifico, sarà manovrata più che altro dai suoi padroni. Una presidenza Clinton probabilmente continuerà nel solco di Obama in Europa e Medio Oriente, ma con qualche sostanziale differenza. E’ facile che i suoi donatori, molti paesi mediorientali facoltosi, abbiano intenzione di provare ad influenzare le sue decisioni evitando che, come Obama, possa impedire una loro aspirazione di intervenire in Siria. In Ucraina invece è più probabile che non vi sia un’evoluzione negativa poiché questa richiederebbe un intervento della NATO direttamente, scatenando un confronto diretto tra l’alleanza atlantica e Federazione Russa.

 

Il motivo più evidente per cui la presidenza Clinton difficilmente potrà discostarsi, nella pratica, da una presidenza Obama è per la natura dei due conflitti principali. In Siria, Damasco è ormai avviata verso la vittoria e non ci sono margini per un intervento armato di paesi regionali grazie alla presenza Russa e Iraniana. Come al solito, in medio oriente è solo l’isteria di Washington a trasparire, a prescindere da chi sarà il prossimo presidente. In Ucraina la situazione è congelata in termini di avanzamenti territoriali. Improbabile che senza un intervento massiccio di truppe in aiuto a quelle Ucraine, si possa assistere ad una nuova guerra come nel 2014. Oltretutto, Mosca ha fatto intendere più che chiaramente di avere tutte le capacità di resistere a tale attacchi, aiutando il Donbass e peggiorando la condizione economica dell’Ucraina. La partita si gioca nel cortile di casa di Mosca, a migliaia di chilometri di distanza dagli Stati Uniti, un chiaro svantaggio strategico incolmabile per Washington. Anche nel caso della vicenda Ucraina si tratta di isteria anti-russa a costo zero grazie ai media compiacenti e voce della propaganda. Persino i paesi Europei iniziano a protestare per le sanzioni contro Mosca, figuriamoci le reazione in caso di un’iniziativa bellica della NATO nel paese Ucraino. Oltre a non vincere il conflitto, una nuova guerra nell’est dell’Ucraina diverrebbe il viatico perfetto per una crisi esistenziale dell’alleanza atlantica. Un rischio di cui Washington è ben consapevole e conoscendo il valore strategico dell’Ucraina, pari a zero se raffrontata con quella di Europa, Medio Oriente e Sud Est Asiatico, è facile intuire perché il prossimo presidente degli Stati Uniti non sarebbe comunque disposto ad uno scontro frontale con Mosca.

 

Purtroppo il discorso cambia notevolmente quando prendiamo in considerazione un’area di maggior interesse strategica per le élite americane come il sud est asiatico. Clinton, da sempre promotrice del pivot-asiatico, sostiene che l’unica maniera per contrastare l’ascesa Cinese sia tentare in ogni modo di contenere la potenza asiatica. In tal senso, possiamo notare anche il suo sforzo come segretario di stato nel Clinton-reset, una politica che avrebbe dovuto avvicinare Mosca a Washington e viceversa. Una strategia che avrebbe potuto aiutare gli Stati Uniti nel contenere, con l’aiuto di Mosca, il colosso Cinese.

 

Avanti veloce, 7 anni dopo i risultati sono un disastro. Stati Uniti e Russia non sono mai state così lontane. Addirittura questa pressione e aggressione americana ai danni di Mosca in Georgia ed Ucraina hanno finito per spingere l’ex paese sovietico nelle braccia del colosso asiatico, creando di fatto un polo alternativo a quello Americano, un vero fallimento a cui si è aggiunto anche l’Iran a causa delle continue aggressione di Arabia Saudita, Qatar, Israele, Turchia e Stati Uniti in contesti che variano dal Nord Africa al Golfo Persico, passando per il Medio Oriente. Con il consolidamento di questo blocco anti egemonico, gli Stati Uniti hanno perso la maggior parte delle opzioni per agire in un’area di acuto interesse come il Medio Oriente. La presenza Russa in Europa, specie nel contesto Ucraino, è un ostacolo insuperabile, in Medio Oriente il duopolio Iraniano-Russo ha scongiurato un eventuale impiego di truppe straniere in Siria. La decisione ultima degli Stati Uniti di non intervenire in tali contesti è anche per la speranza, riposta a lungo termine, che l’Iran possa gravitare nel contesto occidentale, allontanandosi da quello anti-egemonico. In tal senso andrebbe letto l’accordo sul nucleare e l’apertura verso l’amministrazione Rohani rispetto a quella di Ahmadinejad. Nei confronti della Russia, c’è la speranza mai assopita da parte dei centri di potere USA di riuscire ad allungare i tentacoli della democrazia-colorata per il 2018 (prossime elezioni presidenziali), imponendo un candidato con una visione nettamente più occidentale. E’ bene spezzare subito i sogni di gloria dello Zio Sam, Russia e Iran continuano a dominare le proprie regioni di influenza, espandendo contatti e alleanze, senza dare alcun segno di cedimento delle politiche in contrapposizione a Washington. La politica estera di Washington in Europa ed in Medio Oriente, specie ultimi 8 anni è stata schizofrenica, inefficace e controproducente per gli interessi americani in primis.

 

Nel Sud Est Asiatico invece la situazione è ben diversa. L’ascesa della Cina in termini di GDP, gli investimenti militari rispetto al bilancio allocato e la quantità di personale militare a disposizione, sono tutti elementi che dimostrano ineluttabilmente come Pechino, continuando a crescere come negli ultimi 15 anni, nei prossimi 10 diventerà certamente la prima potenza mondiale bellica, oltre che economica. Una situazione che minaccia direttamente l’egemonia Americana come non accadeva da decenni. Per queste ragioni Clinton ha architettato anni fa il pivot lontano dall’Europa, verso l’Asia, e un Reset con la Russia con la speranza di allungare l’elenco di paesi ostili a Pechino con l’obiettivo di contenere il colosso Cinese. Diversi anni dopo, e come già ribadito l’effetto è stato esattamente il contrario. Economicamente la Cina trascina il continente e non solo con AIIB e la banca BRICS, divenendo ormai un polo alternativo al sistema globalista americano del FMI-Banca Mondiale-FED. Militarmente sono sempre meno le nazioni disposte a pattugliare il mar cinese dell’Est o del Sud con le marine di Stati Uniti, Giappone e Australia. Piuttosto paesi come Filippine e Vietnam cercano un dialogo con il colosso Cinese, onde dover rinunciare ad una partnership economica reciprocamente vantaggiosa.

 

Da parte sua gli Stati Uniti non perdono occasione di provocare Pechino con manovre militari spericolate e al limite delle leggi internazionali. E’ facile intuire che con una presidenza Clinton probabilmente gli Stati Uniti avranno in mente di perseguire una strategie aggressiva nel Sud Est Asiatico con molta maggiore decisione rispetto a conflitti in Europa o Medio Oriente. I maggiori donatori nazionali degli Stati Uniti rientrano pienamente nella categoria delle élite nazionali che compongono il concetto di globalisti. Sono questo manipolo di persone che controllano Stampa, Banche, Assicurazioni, Industria Bellica, Medica, Agenzie di Rating e Banche Centrali e che hanno tutta l’intenzione di prolungare, oltre ai loro guadagni, il momento unipolare degli Stati Uniti evitando che possa emergere un altro avversario dello stesso livello. L’ascesa della Cina resta un bollino rosso, visto in prospettiva. Al momento e in passato è certamente stato il viatico perfetto per permettere al turbo-capitalismo USA di esternalizzare il lavoro a basso costo, globalizzazione, per arricchire le tasche di questi super privilegiati. Il problema, per loro, è la nascita con il passare del tempo, di un élite cinese che ha tutta l’intenzione di non essere subordinata ai voleri di Washington. A livello Statale ecco quindi che vediamo la nascita di istituzioni come l’AIIB e l’organizzazione dei BRICS.

 

La Clinton sia per questioni geopolitiche che per obblighi verso i suoi controllori avrà tutto l’interesse ad accentuare l’influenza degli Stati Uniti sugli alleati regionali in Asia per infiammare il sentimento anti-cinese. La strategia è chiara: evitare che Pechino possa dominare la regione. Il rischio di un conflitto, pur elevato come in nessun’altra zona del mondo, è difficile che possa accadere in un futuro immediato, soprattutto per la moderatezza mostrata dai Cinesi.

 

E’ più verosimile attendersi una risposta asimmetrica di Pechino, vantaggiosa allo stesso tempo per le proprie finanze. L’ipotesi più verosimile riguarda un coinvolgimento in Medio Oriente per combattere il terrorismo, magari con una partnership Iraniana e Russa grazie alla SCO. Le alleanze, gli interessi, le organizzazioni e il frame-work internazionale sono già tutti pronti, manca solo l’ordine. Notoriamente questa predisposizione serve anche da deterrente verso mosse eccessive di Washington in Asia, una specie di bilanciamento asimmetrico.

 

E’ tutt’altro che inimmaginabile, in una futura presidenza Clinton, vedere truppe Cinesi al fianco di quelle Russe, Iraniane, Siriane, Irachene, (Egiziane?) in Medio Oriente impegnate in funzione di lotta al terrorismo. In uno scenario di questo genere, con le numerose contrattazioni dietro le quinte tra Ankara, Teheran, Tel Aviv e Mosca, è difficile immaginare un epilogo che sfoci in una guerra regionale, quanto piuttosto una Arabia Saudita e un Qatar sempre più isolati e in difficoltà in confronto al blocco anti egemonico. Pechino, che gioca sempre su diversi tavoli e con largo anticipo, ha già approcciato Riad nel recente passato (suo maggiore fornitore mondiale) con proposte e accordi allettanti. Altrettanto è stato fatto con la Gran Bretagna subito prima del voto in merito alla Brexit, cercando di avvicinare la City di Londra (e il suo influente mercato finanziario) all’orbita Cinese. Per ora la famiglia Saudita resta fedele all’alleato americano (e alla sua finanza di Wall Street), ma con un nuovo circuito sovranazionale come l’AIIB, appoggiato da un mercato finanziario come quello di Londra, non è impensabile che la mossa asimmetrica di Pechino possa avere l’aspirazione di spostare le contrattazioni del petrolio dal Dollaro al Yuan. Per quanto difficile possa essere un cambiamento del genere, le sole discussioni tra Pechino, Riad e Londra pare possano avere capacità di deterrenza nei confronti di eventuali mosse azzardate di Washington con alleati e rivali, dall’Asia all’Europa.


A prescindere da chi sarà eletto prossimo presidente, l’attenzione degli Stati Uniti e del complesso militare industriale sarà indubbiamente focalizzato verso l’area del Sud Est Asiatico.

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