Haiti, ecco perché è stato ucciso il presidente Jovenel Moïse

Haiti, ecco perché è stato ucciso il presidente Jovenel Moïse

Una sintesi della rubrica Brecce, ascoltabile su Radio Quarantena

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Un omicidio nato nelle stanze del potere, all’ombra degli interessi imperialisti che hanno deciso di cambiare cavallo? È il probabile scenario che inquadra l’assassinio di Jovenel Moïse, presidente de facto di Haiti. A compierlo materialmente, un piccolo esercito di mercenari che hanno fatto irruzione nella sua residenza super-controllata mercoledì all’alba spacciandosi per agenti della Dea, lo hanno ucciso e hanno ferito la moglie. Si parla di complicità interne con l’avallo del capo della polizia. Il commando è stato arrestato quasi al completo e mostrato alle telecamere.

Si tratta di 15 colombiani e due statunitensi, che sarebbero arrivati a giugno ad Haiti passando per la Repubblica dominicana. I due statunitensi hanno dichiarato di essere stati contrattati tramite internet come interpreti, per sequestrare e non per uccidere Jovenel Moïse, che avrebbe dovuto essere condotto davanti a un giudice in quanto colpito da un mandato di cattura. Uno di loro è un imprenditore della Florida che ha poi fondato un gruppo no-profit per fornire assistenza umanitaria a Port au Prince, la capitale di Haiti. Altri tre colombiani sono morti per mano della polizia e otto mercenari sono in fuga.

Bogotà ha confermato che 6 degli arrestati sono ex militari colombiani. Il giornale El Tiempo ha rivelato il curriculum di uno di loro, Manuel Antonio Grosso Guarn, fino al 2019 considerato uno dei più preparati dell'esercito colombiano. All'inizio della sua carriera ha ricevuto una formazione da commando speciale, e nel 2013 fu assegnato al Gruppo di Forze speciali antiterroriste urbane, quelle che sequestrano e uccidono i manifestanti che da mesi protestano contro il governo Duque. Quei reparti che, in questi giorni, hanno ricevuto ulteriori rinforzi dalla Cia.

Per vari giorni, prima di trasferirsi ad Haiti, Grosso ha postato foto dal territorio dominicano, di lui e di altri componenti il commando. Dati che però non hanno tappato la bocca a Ivan Duque, che aveva subito dato fiato alla sua ossessione contro la repubblica bolivariana del Venezuela, adducendo la presenza di due presunti venezuelani nel commando, risultati poi essere statunitensi. Un pretesto per chiedere agli Usa di ampliare l’occupazione militare di Haiti e per chiedere all’Organizzazione degli Stati Americani di Luis Almagro d’inviare una missione urgente per “proteggere l’ordine democratico”.

In una situazione analoga, il 28 luglio del 1915, l’assassinio del presidente Guillaume Sam aprì la strada al neocolonialismo statunitense. I marines sbarcarono allora a Port-au Prince per proteggere gli interessi Usa e quelli degli stranieri. Ora, da Washington, la portavoce presidenziale Jen Psaki ha definito l’omicidio “un orrendo crimine” e ha detto che gli Usa, i principali finanziatori di Port au Prince, sono pronti ad “assistere” il popolo haitiano. In che modo, lo dimostra la lunga catena di interventi neocoloniali, militari, politici o finanziari compiuti dai primi anni del Novecento per stroncare l’eredità orgogliosa della prima repubblica di schiavi liberi, guidata da Toussaint Louverture.

Un accanimento iniziato all’indomani della proclamazione della repubblica di Haiti, nel 1795. La Francia ha iniziato a far la guerra economica e diplomatica alla giovane nazione imponendo, nel 1825, e nonostante tutte le ruberie effettuate fino ad allora, il pagamento di risarcimenti ai latifondisti, pena il non essere riconosciuta come repubblica. Haiti fu costretta a chiedere un prestito, ma le venne imposto che poteva contrarlo solo con le banche francesi. Quando l’isola cercò di opporsi, Parigi mandò le navi militari sulle coste haitiane. Haiti ha finito di pagare quel prestito, di circa 22 mila milioni di dollari, un secolo dopo.

All’inizio del secolo scorso, Haiti venne occupata dagli Stati Uniti, che misero le mani sul suo oro, fino al 1934. Da allora, il colonialismo non se n’è mai andato, mediante il controllo diretto o indiretto delle risorse del paese: sia mettendo al posto di comando burattini al servizio degli interessi sovranazionali, sia impedendo qualsiasi sviluppo economico e politico a favore dei settori popolari. Negli anni ’60, durante il mandato del democratico presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy, attraverso la politica dei prestiti concessi in cambio di controllo politico, il debito estero di Haiti è triplicato. La presa del FMI e dei suoi piani di aggiustamento strutturali si è aggiunta al terribile terremoto del 2010 (oltre 250.000 morti), al colera e poi al devastante uragano.

Il paese è prostrato anche da una violenza alimentata ad arte dalle grandi famiglie come quella di Moïse, che si sono ramificate, all’ombra dell’imperialismo Usa. Le bande che, come da “tradizione” (ricordiamo i tristemente noti tonton macoutes, al contempo una milizia e una polizia segreta creata nel 1959 dal dittatore François Duvalier), imperversano nei quartieri poveri, compiono massacri anche a fini politici. Massacri coperti dallo Stato, come ha documentato l’anno scorso un rapporto dell’Osservatorio haitiano dei crimini contro l’umanità. Dal 2018 al 2020, nei quartieri dove più vive sono state le proteste contro Moïse, hanno provocato 240 vittime civili.

La Commissione Nazionale per il Disarmo, lo Smantellamento e il Reinserimento ha censito almeno 77 gruppi criminali armati. Nel 2020, sempre per decreto, Moise seguì le orme di Duvalier e creò l’Agenzia Nazionale di Intelligence (Ani), un corpo para-poliziesco per reprimere la protesta sociale. Il 2020, secondo le organizzazioni per i diritti umani, è stato l’anno della gangsterizzazione accelerata di Haiti, durante il quale almeno un migliaio di persone sono state sequestrate e altrettante sono morte di morte violenta.

Il mese scorso, alcuni capi di queste pandillas hanno dichiarato guerra alle élites tradizionali del paese e hanno invitato il popolo a saccheggiare i negozi: “È il vostro denaro quello che c’è nelle banche, nei negozi, nei supermercati e nelle concessionarie. Andate a reclamare quel che vi appartiene”, ha detto in un video diffuso nelle reti sociali un noto criminale, Jimmy Cherizier, soprannominato Barbecue.

Come dargli torto? A fronte della povertà estrema nella quale vive la gran parte della popolazione, ora aggravata dal coronavirus in un paese che non ha ricevuto alcuna dose di vaccini, c’è una minoranza composta dalla borghesia locale, da quella importata, e dal ceto politico dei funzionari delle migliaia di ong presenti, che vive nel lusso. A febbraio del 2018, Moïse ha applicato la ricetta del Fondo Monetario Internazionale scatenando proteste in tutto il paese. L’anno dopo è scoppiato lo scandalo per corruzione. La Corte dei Conti ha fornito al Senato un rapporto nel quale risultava che almeno 14 ex funzionari del governo avevano stornato oltre 3.800 milioni di dollari erogati dal Venezuela con il programma Petrocaribe tra il 2008 e il 2016, e che l’impresa di Moïse, la Agritans, aveva usufruito di contratti per costruire progetti mai realizzati, ma per i quali aveva intascato il denaro.

L’imprenditore Juvenel Moïse, il signore delle banane come veniva chiamato, non si curava del gradimento della popolazione, ma di quello dei padrini occidentali, che lo avevano messo lì come successore del cantante Michel Martelly e in rappresentanza dell’élite agraria, malgrado la sua mancanza di esperienza politica. Dall’anno scorso, governava per decreto, dopo aver sospeso due terzi del senato, l’intero parlamento e tutti i sindaci del paese, e affermava di voler rimanere in carica fino al 2022, in base a una sua personale interpretazione della costituzione.

Il 29 settembre erano state fissate le elezioni, tante volte rinviate, ma era stato deciso anche un referendum che avrebbe cambiato la costituzione, riportandola ai tempi della dittatura di Duvalier. Nonostante il rifiuto di tutta l’opposizione popolare o istituzionale e anche della Conferenza episcopale, Moïse aveva ricevuto l’avallo del solito Almagro, segretario generale dell’Osa. A gennaio del 2020, Almagro aveva appoggiato la riforma costituzionale e il referendum, sostenendo, come Moïse, che la costituzione attuale fosse la causa di tutti i problemi del paese.

A richiedere l’intervento esterno, adesso, c’è anche il primo ministro uscente Claude Joseph, nominato arbitrariamente da Moïse senza l’avallo del parlamento che, essendo a maggioranza di opposizione, era stato dissolto. Alcuni, adesso, accusano il viceministro de facto, che vuole rimanere in carica fino alle elezioni e che ha dichiarato lo stato d’assedio, di voler portare a termine un colpo di stato e di aver tratto per lo meno vantaggio dall’omicidio. Avrebbe infatti dovuto cedere l’incarico a un altro primo ministro de facto, Ariel Henry, nominato sempre senza il parere del parlamento da Moïse il 5 di luglio. Dall’opposizione istituzionale, si chiede invece di arrivare a una soluzione condivisa che includa personalità riconosciute dell’opposizione e i 10 senatori che rimangono, in quanto unici ad essere stati eletti nel paese.

Quello di Moïse è stato un omicidio annunciato? si chiede ora la stampa, riprendendo una sua intervista a El Pais durante la quale il presidente de facto diceva di aver sventato un attentato contro di lui, mentre il suo partito Tèt Kale accusava “il sistema” di aver finanziato le manifestazioni contro il governo. Di certo, Moïse aveva perso l’appoggio di alcuni potenti gruppi economici, come l’investitore Reginald Boulos e la famiglia Vorbe, che controlla il settore elettrico e che gli aveva pubblicamente chiesto di andarsene. Per ritorsione, il governo aveva annunciato di voler rivedere alcuni contratti di grandi imprese private, anche di proprietà della famiglia Vorbe.

Moïse era inoltre un aperto un sostenitore di Donald Trump. Seguendo la sua politica, aveva rotto con il Venezuela e con Petrocaribe, provocando una crisi energetica, e aveva riconosciuto l’autoproclamato Guaidó. Dopo l’arrivo di Biden e il conseguente spostamento di pedine nello scacchiere internazionale, oltre sessanta deputati democratici statunitensi hanno inviato una lettera  al segretario di Stato, Antony Blinken, chiedendogli di rivedere la politica con Haiti. Nella lettera, criticano “l’insistenza posta dagli Usa nel voler effettuare elezioni a tutti i costi alla fine di quest’anno, con il rischio di scatenare altre violenze nel paese”. E chiedono a Biden di usare “la sua voce e il suo voto” con l’Onu e l’Osa affinché il denaro dei contribuenti non serva per appoggiare il referendum voluto da Moïse.

Un bel po’ di argomenti che hanno probabilmente portato al cruento “pensionamento” del re delle banane.

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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