Gerusalemme brucia. Israele vuole cacciare i palestinesi dalla Città Santa

Gerusalemme brucia. Israele vuole cacciare i palestinesi dalla Città Santa

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Continuano gli scontri a Gerusalemme tra palestinesi e le forze dell’ordine israeliane. I palestinesi denunciano 270 feriti, la polizia ne conta 12. Situazione tesa che dura dall’inizio del Ramadan.

Tanti i fattori che hanno innescato il nuovo scontro: il diniego delle autorità israeliane di far votare alle elezioni palestinesi anche Gerusalemme Est, cosa che ha spinto l’Autorità nazionale della Palestina ad annullare le elezioni (secondarie le altre motivazioni), come anche il nervosismo che vibra in Israele a causa delle incertezze sulla formazione di un nuovo governo.

Le costrizioni del Ramadan

Ma soprattutto, a incendiare gli animi, tre avvenimenti. Anzitutto la decisione di porre delle barriere nella piazza della Porta di Damasco di Gerusalemme, zona che durante il mese di Ramadan attira folle di arabi.

Iniziativa presa all’inizio del Ramadan, seguita da un’altra altrettanto incendiaria (se non nelle intenzioni, misure anti-Covid, certo nelle conseguenze), quella di limitare l’accesso dei pellegrini alla Moschea di al Aqsa nel periodo più sacro dell’islam.

A infiammare ancor più gli animi lo sfratto di 13 famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, Gerusalemme Est, denunciato dai palestinesi come ennesima manovra per cacciarli dalla Città santa.

Ne sono nati scontri accesi, con fiamme alimentate dai feriti e da alcuni morti lasciati sul campo da entrambe le parti, anche se, al solito, le vittime palestinesi sono preponderanti.

Un incendio alimentato anche dall’ingresso in campo di fazioni estremiste. In particolare, ha avuto l’effetto di una bomba incendiaria la manifestazione organizzata a Gerusalemme il 22 aprile dell’organizzazione “suprematista ebraica Lehava” tesa a “ripristinare la dignità ebraica’”, con i manifestanti che hanno sfilato cantando “morte agli arabi” (Haaretz).

Lo sfratto di Sheikh Jarrah

Ma al centro di tutto c’è la querelle innescata dallo sfratto di Sheikh Jarrah, che ha attirato la solidarietà di tanto mondo arabo e internazionale, una disputa che appare assurda nella sua base legale.

Durante la guerra arabo-israeliana del ’48, tanti gerosolitami trovarono riparo fuori dalla città, tra cui alcuni ebrei abitanti negli edifici in questione. A tali famiglie fu poi data una casa dalle autorità israeliane, ma i loro asseriti diritti sulle vecchie proprietà sono stati acquisiti da una società, la Nahalat Shimon, di proprietà della società americana Nahalat Shimon International, con sede in Dalaware, paradiso fiscale americano.

È stata tale società a chiedere alla magistratura israeliana di riconoscere i propri asseriti diritti sugli edifici di Sheikh Jarrah, cosa avvenuta con conseguente avviso di sfratto agli inquilini.

Questa la sintesi di un dettagliato articolo di Haaretz, che ricorda come degli sfollati della guerra del ’48 “la stragrande maggioranza erano arabi, i quali abbandonarono numerose proprietà sulla zona a occidente della linea dell’armistizio, mentre una minoranza di ebrei abbandonarono relativamente poche proprietà nella zona orientale”. Insomma, se si dovessero far valere diritti pregressi, buona parte di Gerusalemme Ovest dovrebbe tornare ai palestinesi…

Sul punto le autorità israeliane hanno fatto il pesce in barile, rispondendo alle proteste, anche internazionali, che si tratta di una querelle immobiliare. Non è così, ma tant’è. Haaretz suggerisce di risolverla con l’espropriazione delle case da parte dello Stato, che dovrebbe porre fine alla questione lasciando tutto così com’è.

Ma al di là dei torti e delle ragioni, resta il clima infuocato di questi giorni, che ha attivato anche Hamas, scesa in campo, in parallelo con l’Autorità nazionale della Palestina, in difesa degli abitanti di Gerusalemme Est. Da qui il lancio di razzi e palloncini incendiari verso Israele e le usuali ritorsioni della controparte.

Raffreddare gli animi

Gli Stati Uniti, l’Onu e un po’ tutto il mondo hanno chiesto a Israele di usare moderazione per raffreddare gli animi. Nel riferire la situazione, Anshel Pfiffer, in una nota in cui smussa i toni, spiega che nessuno vuole un’escalation, né il governo israeliano, né i palestinesi.

E aggiunge che quanto avvenuto in questi giorni è frutto di una serie di “errori grossolani, ai bulli inesperti posti al comando [della polizia] e alla mancanza di una leadership coerente al di sopra di questi nuovi e inesperti [responsabili della sicurezza], ai quali si deve un eccesso di ‘bullismo’”.

Forse Pfeiffer minimizza eccessivamente, ma è evidente che la priorità ora è spegnere l’incendio prima che diventi ingestibile, lasciando sul campo altri morti e feriti. La rimozione delle barriere presso la Porta di Damasco e l’annullamento dell’udienza del procedimento di sfratto sembrano andare in questa direzione.

Occorre raffreddare la situazione in attesa che ci sia un governo israeliano che possa interloquire con la controparte. Nel caos, infatti, tutto diventa più difficile e a rischio. A oggi, infatti, Israele è guidata da un governo di transizione, che sembra prossimo a lasciare.

Un nuovo governo, infatti, sembra stia prendendo forma, dato che anche il secondo partito arabo, Ra’am, che finora aveva nicchiato, ha dato parere favorevole a un governo di unità nazionale senza il Likud e soprattutto senza Netanyahu. Sarebbe il primo da un decennio.

Spetterà al nuovo governo, sempre che vada in porto, cercare di sbloccare una situazione bloccata da tanti, troppi, anni. Certo, sperare che il complesso conflitto israelo-palestinese possa risolversi a breve è irenico, ma non è impossibile fare qualche passo nella direzione giusta. Essere scettici in merito è legittimo, sperare altrettanto.

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